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VEDO LA GENTE MORTA


“Il fatto che Henry Armstrong fosse stato seppellito, sembrava non essere sufficiente a dimostrargli che era morto: era sempre stato un uomo difficile da convincere”.

(Ambrose Bierce, “Notte d’estate”)


Nei formidabili racconti dell’orrore di Ambrose Bierce, uno dei temi più frequenti e terrifici è quello dei morti che non sanno di essere morti. Chi ha letto storie indimenticabili come “La strada al chiaro di luna”, “Un evento al ponte di Owl Creek”, “Notte d’estate”, sa di cosa parlo.

Ciò che nei racconti del grande autore statunitense atterrisce davvero (o almeno MI atterrisce davvero) è la sua capacità di delineare con tratti assolutamente realistici il diffuso meccanismo psicologico del rifiuto del cambiamento.

Una persona si trova per buona parte della sua vita inserita in un dato ambiente temporale e sociale, a cui corrispondono ben precisi parametri operativi: modelli di comportamento, sistemi valoriali, schemi di ragionamento, credenze religiose e assiomi scientifici, punti di riferimento tanto spirituali quanto materiali (strade, negozi, strumenti di uso comune, ecc.).

Ma poiché la vita è ormai piuttosto lunga e le trasformazioni sociali assai rapide, capita quasi sempre, almeno una volta nella vita di ciascuno di noi, di ritrovarsi all’improvviso all’interno di uno scenario completamente modificato, in cui i vecchi parametri di riferimento sono divenuti obsoleti e i consueti modelli di approccio alla realtà circostante non più utilizzabili. Questa terribile, drastica trasformazione con cui prima o dopo ciascuno di noi si trova a fare i conti, è simboleggiata nei racconti di Bierce dal passaggio dalla vita alla morte. Il dramma è che quando esso si verifica, i defunti non si rassegnano a correggere la propria prospettiva, adattandola alla mutata condizione ontologica. Anzi molto peggio: non si rendono neanche conto di essere transitati in una realtà che non è più quella che conoscevano. Così ripetono imperturbabili antichi gesti, remote pratiche che erano naturali e ordinarie nella vita terrena, ma appaiono grottesche ed orribili in rapporto al nuovo status, suscitando in chi riesce a scorgerli comprensibile raccapriccio. E’ la loro incapacità di confrontarsi con l’avvenuta transizione ad un mondo nuovo, non l’evento tutto sommato comune della morte, ciò che fa paura al lettore dei racconti di Bierce.

Per il sottoscritto, ai suddetti elementi, si aggiunge poi un retropensiero che rende il tutto ancor più angoscioso. Per chi è cosciente della stretta interrelazione esistente tra realtà oggettiva e soggettiva – che non sono affatto separate, ma interagenti: la percezione definisce la realtà quanto la realtà determina la percezione – ogni mutamento della realtà a cui non corrisponda un adeguato mutamento dell’io soggettivo rappresenta una sopraffazione del reale nei confronti dell’io: la nostra coscienza viene sommersa da elementi inattesi, fino a disperdersi totalmente nell’universo sensibile, a scomparire tra i suoi flutti.

Scriveva Yukio Mishima ne “Il Padiglione d’Oro”: “La mia convinzione, logicamente elaborata, era che se il mondo fosse mutato io non sarei più esistito, mentre se fossi mutato io sarebbe stato il mondo a non esistere più”. Non essendo un monaco buddista, il pensiero di un mutamento della realtà che determini la mia scomparsa, che mi transustanzi in un fantasma convinto d’essere vivo, mi risulta oltremodo sgradevole.


Ma che cosa succede quando non è un individuo, ma un’intera società a trasformarsi in un fantasma convinto di essere vivo?

Che cosa accade quando masse di milioni e milioni di persone transitano senza accorgersene in una dimensione radicalmente differente da quella a loro familiare, e senza osare guardarsi intorno proseguono nel ripetere meccanicamente riti e liturgie di un’epoca scomparsa?

Che cosa succede quando ti senti l’unico sopravvissuto – forse ce ne sono altri, ma chissà dove sono, chissà se mai riuscirai a stabilire un contatto – non del vecchio mondo, ma del nuovo, mentre intorno a te ululano migliaia di diafani spettri di una vita passata?


Io vedo ovunque la gente morta.


Vedo comitive di lavoratori-spettri che, in appositi torpedoni forniti dagli occultisti sindacali, vanno a dimenare le loro catene in qualche piazza italiana, guidati dagli stessi fantasmi che, più di un secolo fa, garantivano loro tutela collettiva attraverso la lotta. Quei tempi appartengono ormai alla preistoria. Oggi uno sciopero è una manna per i padroni, per i quali la manodopera non altamente qualificata non rappresenta una risorsa da mettere all’opera, bensì un costo di cui disfarsi; è una manna per gli occultisti sindacali, che giustificano con tali sedute spiritiche la loro esistenza e la loro presenza ai tavoli delle trattative, forieri di posizioni lucrose per i famigli; ed è invece un danno per i lavoratori-spettri, che ci rimettono tempo e giornate retributive di un salario già tisico. Ma in fondo non ha senso parlare di “danni” o “vantaggi” per gli spettri: tutto ciò che vogliono è un luogo per agitare le loro catene, in un’orrida parodia della vita, di cui serbano confusa memoria.


Vedo orde di lamentevoli ombre, armate di scheda elettorale e matita copiativa, fare la fila al seggio per disegnare analfabetiche croci su simboli che essi credono corrispondere a prospettive politiche distinte, come avveniva quando ancora respiravano l’aria del dolce mondo. Ectoplasmicamente tracciano sul foglio i loro simboli della pace eterna, senza più vedere che in un paese del tutto privato di sovranità – quindi di vita – i volti apparentemente molteplici che fanno capolino dai riquadri crocettabili sono in realtà le teste di una stessa apocalittica bestia, quella statunitense, la quale, con alacre gaiezza, graffia i creduli spirti, iscuoia et isquatra. E ciascuno di essi, tra le fauci della belva, s’accapiglia con gli altri, li insulta, tira i capelli al vicino, affermando la superiore moralità e coerenza istituzionale della capoccia canina che lo dilania.


Vedo la CostituZione, con la zeta di Zorro, la bandita gentiluoma che quand’era viva, nel dopoguerra, rubava ai ricchi per dare ai poveri; ma trapassò, ahimé, mutandosi in gelida pietra su cui strepitano i gatti randagi e svolazzano le anime non rassegnate dei suoi adoratori e delle sue articolesse: articolessa 1, L’Italia è una Repubblica democratica fondata dalle bombe americane sul cadavere del lavoro, che era malato da tanto tempo, si è serenamente spento una ventina d’anni fa e oramai va portato fuori di casa, perché già inizia a puzzare. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dagli Stati Uniti e dai loro sacerdoti guardiani, il TG1, La Repubblica e Facebook.

Non provate a dire ai morti viventi, che ancora se ne cibano, che il loro testo sacro è ormai un inutile, putrescente ammasso di nonsense: ne riceverete in risposta furenti grugniti e lanci di interiora annerite. Dovrete fuggire per aver salva la vita.


Vedo l’Espressione, querula giovinetta che in questa vita terrena amò di folle amore il suo soggetto, Libertà, essendone ricambiata e divenendone il complemento di specificazione. Guardatela, ora, come l’ha resa la morte: come la madre di Halpin Frayser, è un terrificante banshee che strepita i suoi incomprensibili ruggiti nel cimitero telematico dei blog e dei social network, una presenza terrificante che dai giornali atterrisce e tiene in riga le anime che raggiunge col suo grido, un Michele Serra urlante che dalla fossa comune di Repubblica strabuzza gli occhi al viandante atterrito e lo pietrifica con le sue fregnacce. Più che tutelarla con l’articolessa 21, sarebbe urgente ucciderla con un proiettile d’argento nel cuore, decapitarla, bruciarne i resti su un’ara purificata con incenso e sangue di vergine, includendo nel rogo i suoi perversi, scalfarici angeli neri.


Vedo vagare ancora per le strade i vaneggiatori del fascismo e del comunismo.

Sì, bambini.

Esistono ancora larve un tempo umane che, evocate dai paragnosti dell’informazione, interpretano il mondo sulla base di queste categorie politiche che erano già decrepite all’epoca di Grazie dei fior; categorie utili alla comprensione del presente quanto quelle di foglianti e montagnardi, cesariani e pompeiani, neandertal e sapiens. Non ci si crede, sono creature troppo troppo orribili, eppure sono tra noi. Perciò dite una preghierina, bambini, per tenerli lontani dalle nostre case. Aglie, fravaglie, fattura ca nun quaglie. Cuorn e bicuorn, a’ nott’ s’è fatt’iuorn. Diavulillo diavulillo, jesce a dint’o pertusillo. Sciò sciò ciucciuvè.


Tutte queste creature dell’oltretomba si aggirano ripugnanti tra l’archeologia del mondo che un tempo abitavano, ripetendo meccanicamente i gesti e le parole esanimi che amarono da vivi. Per liberarsi dei loro lamenti, delle loro terribili strida, non bastano stregoni ed esorcisti: occorrono uomini viventi, disposti a tutto, pronti a spazzare via con le ruspe le rovine dirute della loro tramontata civiltà, i resti diroccati dei loro primordiali concetti di riferimento. Occorrono bulldozer e caterpillar, sale sulle macerie, escavatrici pietose che annichiliscano le stesse fosse comuni di questi esseri, polverizzandone i resti e reinserendoli nell’ incessante ciclo biologico della natura.

Ci sono ancora uomini vivi, là fuori, che abbiano voglia di ricostruire il mondo?

Uomini vivi, se ci siete battete un colpo.

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